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Addio al Regno Unito. La Brexit è scattata alle 24 del 31 gennaio, ma si è trattato solo di un momento simbolico: sono state tolte le bandiere europee dai palazzi governativi britannici e ammainate le Union Jack dalle sedi dell’Unione. Adesso inizia la fase due, quella del negoziato tra Londra e Bruxelles per definire i rapporti futuri sotto ogni punto di vista. Il tempo è poco, solo undici mesi (entro cioè il 31 dicembre di quest’anno), nei quali continueranno a valere le regole esistenti.
Il premier Boris Johnson che al Regno ha parlato di nuova alba per una Gran Bretagna globale vorrebbe concludere un accordo commerciale a «zero costi e zero dazi»; in sostanza un accordo di libero scambio con l’Unione europea, ma le incognite sono molte e il tempo pochissimo, tanto che la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ha già lasciato intendere che per raggiungere un’intesa come quella auspicata dai britannici potrebbe essere necessario prolungare il periodo della transition.
Prima di entrare nel dettaglio delle relazioni geopolitiche e geoeconomiche alla luce della Brexit, è forse necessario valutare il fronte interno. La prospettiva delle Isole britanniche

Il fronte interno
Il Regno Unito, dopo tre anni e mezzo di vero e proprio stato confusionale (si sono succeduti tre premier – Cameron, May e Johnson e si sono svolte tre elezioni politiche) arriva all’addio ma non in maniera compatta. Ci sono nazioni della Gran Bretagna, Scozia e Irlanda del Nord, che al referendum si erano espresse contro l’uscita e che potrebbero provocare non pochi problemi. Il rischio è quello di una dis-unione del Regno.

I nazionalisti scozzesi sognano di poter indire una seconda consultazione sull’indipendenza (dopo quella fallita nel 2014). Ma al momento Johnson ha chiarito di non aver alcuna intenzione di concederla (per il referendum scozzese serve il voto favorevole anche di Westminster come prevede la sezione 30 dello Scottish devolutionary act). Oltre a motivazioni di ordine politico e di tenuta del suo governo c’è per la verità l’impegno preso dagli scozzesi sei anni fa per cui l’esito del referendum avrebbe rappresentato il volere di una generazione e quindi una seconda consultazione non sarebbe all’ordine del giorno. Ma si sa questo genere di dichiarazioni valgono in campagna elettorale e ora Edimburgo non vuole perdere il treno dell’Europa, nei prossimi mesi si capirà se davvero c’è il rischio che si replica uno scenario sulla falsariga di quello catalano. Anche se la Scozia non è la Catalogna né dal punto di vista economico (potrebbe sì rivendicare i pozzi petroliferi del Mare del Nord, ma il reddito pro capite scozzese è simile a quello catalano solo nella zona di Edimburgo e Glasgow, nelle altre aree è molto più basso – si potrebbe parlare quasi di zone depresse).

Per quanto riguarda l’Irlanda del Nord la situazione è ancora più complessa. Innanzitutto va risolta la delicata questione collegata agli accordi di pace del venerdì Santo del 1998 che misero fine ai Troubles, la sanguinosa guerra civile nordirlandese. Secondo gli accordi (di cui sono garanti oltre all’Ue anche gli Stati Uniti), il confine tra Nordirlanda e Repubblica d’Irlanda non può essere hard, nel senso che deve essere garantita la libera circolazione delle persone e delle merci. Londra ha respinto l’ipotesi di backstop proposta dall’Unione e ha presentato un suo piano d’azione che, tuttavia alla lunga, nel 2025 comporterà la fine dello status speciale dell’Irlanda del Nord. Il rischio è quello di un ritorno delle tensioni e anche delle azioni armate nell’Ulster, dove per altro, si è registrato in questi anni il sorpasso demografico da parte dei cattolici (repubblicani) sui protestanti (lealisti). La preoccupazione di questi ultimi (ma sottotraccia anche di Londra) è che si possa arrivare, presto o tardi, ad un referendum per la riunificazione delle due Irlande, una possibilità che non è, secondo i giuristi, illegale anche alla luce degli accordi di Pace. È chiaro a tutti che anche questo sarebbe uno scenario esplosivo per i rapporti tra le minoranze nordirlandesi, con il rischio di una balcanizzazione della Regione. Per questo motivo il baldanzoso Johnson deve in realtà maneggiare la questione nordirlandese con grande cautela.

Per aggiungere ancora un po’ di pepe alla Brexit, non va dimenticato il caso di Gibilterra. Il territorio d’oltremare nel 2016 ha votato quasi totalmente, il 96%, per restare nell’Unione e da decenni è al centro di una contesa internazionale con la Spagna che ne richiede la co-sovranità, fornendo una propria interpretazione dell’articolo XI del Trattato di Utrecht del 1713 quando la rocca venne assegnata alla Corona inglese. Ora il futuro di Gibilterra appare molto incerto e i prossimi mesi potrebbero essere decisivi. Le eventuali ripercussioni di una crisi politica attorno alla Rocca non si limiterebbero alle questioni di pesca dei tonni o al futuro dei frontalieri, che quotidianamente dalla Spagna vanno a lavorare in quello che fino al 31 gennaio era territorio europeo, ma potrebbero influenzare anche i trasporti marittimi che dallo Stretto di Gibilterra passano quotidianamente.

 

fonte: SIDERWEB.COM