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«L’America sarà sempre al primo posto e non tollereremo pratiche commerciali scorrette». Donald Trump, parlando al Forum di Davos, non ha lasciato spazio all’immaginazione, anche se poi il presidente americano ha provato a correggere il tiro precisando che America First non significa America da sola.

 

Ma a fronte di una moderazione dei toni da parte del presidente, che si è registrata anche nel primo discorso sullo Stato dell’Unione in cui Trump è apparso più affabile rispetto al passato, la posizione dell’attuale amministrazione americana resta durissima dal punto di vista commerciale. Alla vigilia, infatti, del forum nella cittadina svizzera, gli Stati Uniti hanno stabilito una nuova serie di misure per limitare l’import di lavatrici e di pannelli solari (i costi di importazione saranno del 30% nel primo anno, dureranno per quattro anni e nell’ultimo anno scenderanno al 15%).

L’iniziativa non solo colpisce la Cina, ma penalizza anche uno degli alleati storici in Estremo Oriente, la Corea del Sud, che oltre ad ospitare numerose basi militari americane, è una pedina fondamentale nel complesso teatro coreano. Seoul ha addirittura minacciato un ricorso al Wto contro questi nuovi dazi.

Non solo, il segretario al Commercio Wilbur Ross ha lasciato intendere che presto potrebbero arrivare nuove misure di protezione per l’importazione di acciaio. Scadono, infatti, entro aprile i termini a Washington per l’istruttoria aperta dal Ministero del Commercio sulla sezione 232 del Trade Expansion Act che ha l’obiettivo di indagare sugli effetti delle importazioni sull’economia americana.

La sovrapproduzione cinese, secondo il dispositivo preparato dall’amministrazione Trump, non solo colpirebbe le aziende americane, ma metterebbe a repentaglio addirittura la sicurezza nazionale. E ancora, Washington minaccia Pechino con lo spauracchio di una multa per la tutela della proprietà intellettuale che sarebbe stata violata da parte cinese ormai innumerevoli volte.

Nel frattempo, l’Organizzazione mondiale del Commercio – struttura che gli Usa hanno contribuito a costituire ma nella quale, nell’era Trump, hanno dimostrato di non credere più – ha annunciato la scorsa settimana che entro l’agosto di quest’anno ci saranno i primi risultati dell’arbitrato richiesto da Pechino sulla disputa Usa-Cina per le misure antidumping americane.

Come se non bastasse, lo stesso Trump, alla vigilia di Davos, ha attaccato l’Unione europea rea «di aver trattato gli Stati Uniti in maniera ingiusta in fatto di commercio», mandando un messaggio non proprio incoraggiante a Bruxelles con l’ipotesi di misure restrittive anche nei confronti delle economie europee.

Certo non è una novità: tutti ricorderanno l’affondo di un anno fa contro la Germania che avrebbe sfruttato, secondo il presidente Usa, l’euro debole per avvantaggiarsi nell’interscambio commerciale.

Mettendo insieme tutti i tasselli di questo complesso mosaico ne emerge un quadro più oscuro di quanto potrebbe apparire dell’affabilità almeno apparente di Trump.

Gli Stati Uniti stanno in qualche modo sovvertendo il complesso quadro delle relazioni commerciali internazionali: si tratta ora di capire fino a che punto l’amministrazione americana vuole spingersi. Sarebbe già abbastanza pericoloso e rivoluzionario per il sistema immaginare che Washington, bypassando molte delle regole condivise a livello globale, inizi a basare i rapporti commerciali su base bilaterale e quindi su rapporti di forza.

Ma se la Casa Bianca volesse spingersi alla destrutturazione anche pratica delle attuali relazioni commerciali globali come le conosciamo gli effetti rischiano di essere devastanti: il mondo non è pronto per una guerra geoeconomica senza confini. Per altro, un regime protezionistico hard penalizzerebbe anche l’economia americana che in questi dodici mesi ha tratto giovamento semplicemente scommettendo sulla deregulation immaginata da Trump, ma che con dazi su acciaio e in altri settori strategici rischierebbe invece di essere ridimensionata con una mortificazione della crescita.

Senza dimenticare un aspetto più generale. Il sistema globale così come lo conosciamo funziona e garantisce l’espansione economica grazie al libero scambio, ma ancor di più per la partecipazione di tutti i principali attori. Ciò significa che un sistema economico globale senza gli Stati Uniti non potrebbe funzionare, proprio perché quella struttura di relazione è stata costruita da e fermo restando gli Stati Uniti.

Senza Washington si rischia il caos.

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