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Nel Regno Unito sono settimane decisive, con l’accordo sulla Brexit appeso a un filo e con esso le sorti dell’economia britannica dei prossimi anni, oltre che le relazioni commerciali tra Bruxelles e Londra.

L’11 dicembre la Camera dei Comuni sarà chiamata ad esprimersi sull’accordo ottenuto dalla premier Theresa May con i vertici comunitari. Un accordo che i 27 Stati membri hanno approvato domenica 25 novembre nel corso di un vertice straordinario a Bruxelles. Non vi è dubbio che si sia trattato di una vittoria diplomatica dell’Unione europea, ma è altrettanto evidente che, come ha fatto notare la May, si tratti da parte inglese del miglior accordo possibile. Il negoziato ha vissuto continue interruzioni: in questi anni si sono dimessi due ministri alla Brexit, David Davis e Dominic Raab, quest’ultimo a pochi giorni dall’accordo. Il governo May è stato segnato da continue divisioni interne, con la fronda di “brexiteers” ortodossi guidata dall’ex ministro degli Esteri, Boris Johnson, e la costante spina nel fianco dei lealisti nord-irlandesi del Dup (fondamentali per la maggioranza a Westminster), che hanno sempre minacciato di andarsene senza un’intesa soddisfacente sul confine tra Irlanda del Nord e Irlanda. Insomma, l’Europa ha tratto vantaggio delle obiettive difficoltà interne che la May ha dovuto fronteggiare in questi anni.

Parlamento diviso
Così nella bozza d’intesa (che dovrà essere votata sia dal Parlamento britannico che dal Parlamento europeo) si parla di una cifra che oscilla tra i 45 e i 60 miliardi di euro che Londra dovrà pagare per il divorzio da Bruxelles. Ai 3 milioni di cittadini europei residenti nel Regno Unito e al milione di britannici che vivono in Europa viene garantito lo stesso status odierno, e ciò varrà anche per coloro che si trasferiranno nel periodo di transizione.
Ma i punti che stanno dividendo politicamente il Paese sono altri: si stabilisce l’idea del backstop irlandese, ovvero il confine tra Irlanda del Nord e Irlanda resterà fluido, senza una barriera fisica, con l’eventualità di applicazione di barriere doganali solo se Londra e Bruxelles non troveranno un accordo commerciale nel periodo di transizione. Un’altra vittoria messa a segno dai negoziatori europei, guidati dal francese Michel Barnier, è il ruolo della Corte di Giustizia europea che resterà l’organo di riferimento per l’arbitrato sulle contese tra Bruxelles e Londra sui diritti dei cittadini fino a 8 anni dopo la fine della transizione (quindi fino a 2028) e per almeno 4 anni su tutti gli altri ambiti. Altro tema scottante è quello delle relazioni commerciali: il Regno Unito resterà nell’Unione doganale per tutta la durata della transizione, che inizierà il 29 marzo 2019 con la Brexit e si concluderà alla fine del 2020, con il dettaglio non da poco per cui Londra non avrà alcun potere decisionale nell’arco di questi 20 mesi sulle questioni commerciali.

Relazioni commerciali in tensione
Sul tema delle relazioni commerciali si sta consumando una vera e propria battaglia e a complicare le cose ci si è messo anche il presidente americano Donald Trump, che ha espresso perplessità sul fatto che Londra, nella fase di transizione, possa siglare un nuovo accordo quadro con gli Stati Uniti. Uno scenario che certamente sarebbe penalizzante per il Regno Unito, ma il cui spettro era già stato paventato in passato.
La questione non è affatto chiara perché, benché la May si affanni a dichiarare che il Regno Unito abbia la possibilità di sottoscrivere nuovi accordi commerciali anche tra il 2019 e il 2020, tutto lascerebbe intendere l’esatto contrario. L’Unione europea di fatto congelerebbe lo status internazionale della Gran Bretagna dal punto di vista commerciale mettendo al primo posto per i 20 mesi transitori la priorità di discutere le relazioni commerciali Londra-Bruxelles (con la spada di Damocle per gli inglesi che il confine irlandese resterà comunque poroso). Per cui nello stesso periodo il governo britannico non potrà imbastire nuovi rapporti di scambio nemmeno con quegli Stati appartenenti al Commonwealth, con cui invece Bruxelles sta siglando accordi commerciali multilaterali, ad iniziare da Australia e Nuova Zelanda (mentre quello con il Sudafrica ha appena iniziato il suo iter).

Il rischio incognita dell’11 dicembre
Bastano questi aspetti a causare le durissime frizioni interne alla politica inglese: al momento la May uscirebbe battuta da un voto a Westminster sull’accordo sulla Brexit. Mancano almeno 100 voti per il via libera: il governo ha contro i ribelli conservatori, i lealisti del Dup, i laburisti, gli indipendentisti scozzesi e i liberaldemocratici; un fronte variegato che va dagli “hard brexiteers” a coloro che vorrebbero un nuovo referendum.
Il punto è che l’11 dicembre alla Camera dei Comuni potrebbe naufragare l’intesa di divorzio siglata con l’Ue e a quel punto si entrerebbe in terra incognita. La prima soluzione potrebbe essere un secondo voto sulla Brexit entro fine anno, dopo che la May è stata di nuovo a Bruxelles a ritoccare l’accordo: ma già si sa che si tratterebbe solo di cosmesi e che non ci sarebbero modifiche sostanziali. In subordine, ci potrebbe essere un’ipotesi di appoggio alla May da parte dei Tories ribelli, a patto che la premier si faccia poi immediatamente da parte, con le sue dimissioni prima del 29 marzo.
Ma se il governo sarà battuto e non vi saranno seconde chance allora, nonostante le dichiarazioni da parte dei “brexiteers”, non ci potrebbe essere più tempo per ridiscutere l’intero accordo sottoscritto in base all’articolo 50 del Trattato di Lisbona (quello che prevede cioè l’uscita di uno Stato membro dall’Unione europea). Non sarebbe possibile posticipare di qualche mese la data “x” del 29 marzo di divorzio dall’Europa. E a quel punto si piomberebbe in una situazione di no deal o hard brexit: confini fisici e barriere doganali. Banalmente, per quanto riguarda le relazioni commerciali, esse sarebbero regolate sulla base delle norme del Wto, con tanto di dazi e barriere da una parte e dall’altra.

Londra con le spalle al muro
E vista la delicatezza del momento cominciano a circolare anche le prime stime sull’economia inglese in caso di mancato accordo, con previsioni che vanno da “pessime” a “davvero pessime”. Il Fondo monetario internazionale arriva ad ipotizzare un calo dell’8% del Pil nel lungo periodo (nei prossimi 8-10 anni). In questo momento, però, circolano stime anche sulla contrazione dell’economia alla luce dell’accordo siglato dalla May: secondo i ricercatori del King’s College, nei prossimi 10 anni l’economia calerebbe fino al 5,5%. Senza parlare delle prospettive disastrose, in caso di no deal, per l’inflazione e per la sterlina. Londra è con le spalle al muro e il voto del 23 giugno 2016 l’ha condotta in un vicolo cieco. Ma questo è il prezzo del divorzio.

 

 

 

Fonte: siderweb.com

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