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Eccesso di capacità produttiva e debito sono due malattie gravi dell’industria pesante che in trent’anni ha trainato la Cina portandola al posto di seconda economia del mondo. Ci sono migliaia di fabbriche statali che gli economisti chiamano «zombi», morti viventi: sono state tenute aperte negli ultimi anni solo perché il governo e le banche pubbliche continuano a versarci denaro per ripagare almeno gli interessi sul debito, evitando fallimenti a catena e masse di disoccupati. Una sorta di cassa integrazione con caratteristiche cinesi che però è diventata insostenibile.

A dicembre, in una conferenza di pianificazione, il primo ministro Li Keqiang ha usato una frase netta: «Con le fabbriche jiangshi che hanno un assoluto eccesso di capacità produttiva dovremo agire senza pietà, affondando il coltello». Jiangshi è la traduzione in mandarino di zombi. E nell’operazione saranno tagliati milioni di posti di lavoro. Sabato a Pechino si apre la sessione annuale dell’Assemblea nazionale del popolo, il Parlamento che ratifica i documenti elaborati a porte chiuse dal Comitato centrale del Partito comunista. All’ordine del giorno il
13esimo Piano quinquennale che detta le linee di sviluppo 2016-2020. E un giorno dopo l’altro stanno uscendo anticipazioni sul finale di questo film dell’orrore industriale. La Cina ha 150 mila imprese di proprietà statale che valgono sulla carta circa 100 mila miliardi di yuan (poco meno di 14 trilioni di euro) e impiegano circa 30 milioni di lavoratori.

Lunedì Yin Weimin, ministro delle Risorse umane, ha annunciato la ristrutturazione dolorosa nei settori del carbone e dell’acciaio: prevede un totale di 1,8 milioni di esuberi per 1,3 milioni di minatori e 500 mila metalmeccanici. Yu ha promesso che il governo centrale metterà 100 miliardi di yuan (poco più di 13 miliardi di euro) per sostenere gli operai in esubero. Ieri fonti governative anonime hanno parlato con l’agenzia Reuters , alzando il bilancio a 5-6 milioni di licenziamenti, allargandolo ad altri settori schiacciati da una montagna di produzione in eccesso, al cemento al vetro, alla carta, ai cantieri navali. Il caso di cui si parla di più, anche in Europa, è quello del settore siderurgico: gli impianti in Cina possono sfornare 1,14 miliardi di tonnellate di acciaio all’anno, una sovraccapacità di 327 milioni di tonnellate rispetto a una domanda in calo, quindi sono utilizzati solo al 71% e una metà sono in perdita. Il dato si è triplicato rispetto al 2008, quando era di 132 milioni di tonnellate: così per trovare uno sbocco i cinesi pompano sussidi nelle acciaierie statali e giocano al «dumping», il ribasso dei prezzi, cercando di spazzare via la concorrenza internazionale. Jeorg Wuttke, presidente della Camera di commercio europea a Pechino, presentando a fine febbraio il rapporto «Overcapacity in China» ha spiegato che la sovraccapacità produttiva «danneggia anzitutto la Cina perché capitale, forza lavoro e terra dovrebbero essere impiegati per usi più remunerativi»; crea un circolo vizioso perché i profitti bassi o inesistenti riducono i fondi di ricerca e sviluppo; apre un buco nero nel pagamento degli interessi sul debito. «E poi c’è l’impatto sull’economia globalizzata, si creano tensioni commerciali che spingono altri Paesi al protezionismo per difendere posti di lavoro», ha detto Wuttke riferendosi al contenzioso in corso tra Unione Europea e Cina per l’acciaio. «La Cina non può pensare di esportare i suoi problemi, li deve risolvere in patria», ha concluso. Ci sono almeno altri sette settori nelle stesse condizioni della siderurgia: cemento, alluminio, vetro, carta, chimica, cantieristica navale, raffinamento del petrolio. La Cina ha cementifici con una capacità per 3,1 miliardi di tonnellate all’anno e in due anni ha prodotto più degli Stati Uniti nel corso dell’intero XX secolo. Ora che le città cinesi sono state saturate di palazzoni e grattacieli, i cementifici sono utili solo al
73%. Le fabbriche del vetro piano hanno un eccesso di capacità del 21%; quelle di alluminio del 24%; carta e cartone del 16%. I cantieri navali sono circa 300, ma quelli con commesse si sono ridotti a 100, quindi i due terzi restano aperti solo per garantire salario improduttivo. Li Keqiang dice che userà il coltello. Ma non basta un ordine da Pechino per eliminare le fabbriche zombi. L’opposizione interna è fortissima: molti governatori di provincia e amministratori locali cinesi temono di perdere potere e di dover affrontare instabilità sociale nelle loro zone. In mezzo a questa battaglia il destino di milioni di lavoratori, in Cina e nel mondo.

 

 

Fonte: Corriere della Sera