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L’Italia è tecnicamente in recessione. I dati preliminari diffusi oggi dall’Istat hanno confermato le attese di rallentamento che hanno animato i giorni scorsi. Un calo che lo stesso premier Giuseppe Conte aveva anticipato ieri a Milano. L’Ufficio Studi di siderweb ha analizzato le motivazioni alla base di questa frenata e l’impatto sulla finanza pubblica italiana.

I dati
Secondo la stima preliminare dell’Istat, nel quarto trimestre del 2018 l’economia italiana ha segnato una contrazione dello 0,2%, che fa seguito a quella, più modesta (0,1%), registrata nel terzo trimestre. Tale risultato negativo determina un ulteriore abbassamento del tasso di crescita tendenziale del Pil, che scende allo 0,1% dallo 0,6% del trimestre precedente. Pertanto, nel 2018 il Pil, corretto per gli effetti di calendario, è aumentato dello 0,8% (1% sui dati trimestrali grezzi) rispetto all’1,6% del 2017.

La variazione negativa del Pil riflette un netto peggioramento della congiuntura del settore industriale a cui si aggiunge un contributo negativo del settore agricolo, a fronte di un andamento stagnante delle attività terziarie. La brusca frenata, che ha colpito il nostro Paese dalla metà dello scorso anno, ha interrotto una fase di ripresa che aveva avuto inizio in Italia con ritardo e con ritmi di crescita inferiori rispetto alle altre maggiori economie. La frenata deriva più da circostanze esterne che dalle vicende interne. Pesano i diversi focolai di crisi presenti nel mondo, il cui unico denominatore comune è rappresentato da scenari politici inattesi e dai relativi riflessi sulle scelte di politica economica, ad esempio: le guerre tariffarie avviate dal governo statunitense, la gestione del processo di uscita del Regno Unito dall’Ue, le situazioni di crisi in Turchia, Argentina e Venezuela, il rallentamento dell’economia cinese.

La fragilità dell’economia italiana
L’area euro, e in particolare l’Italia, si è dimostrata molto fragile rispetto al peggioramento del quadro economico internazionale. La frenata degli investimenti a livello globale sta penalizzando soprattutto l’economia tedesca, che presenta tradizionalmente un’elevata dipendenza dalla domanda mondiale di beni di investimento, e che sta anche subendo le conseguenze del forte rallentamento del ciclo dell’auto; in parte spiegato da problemi nell’adeguamento dei nuovi modelli alle normative ambientali. L’Italia segue, anche per il grado di integrazione significativo con l’industria tedesca, e per un ciclo che resta strutturalmente dipendente dal traino della domanda in Germania.

La frenata europea rischia quindi di portare l’economia italiana verso una vera e propria recessione (già di fatto certificata dalla diminuzione del PIL per due trimestri consecutivi), che apre una fase complessa e piena di incognite considerato che la nostra economia è ancora vincolata ad un percorso di crescita guidato dalle esportazioni, un canale di sbocco delle nostre produzioni per sua natura instabile. Quando le condizioni internazionali si fanno meno favorevoli l’economia italiana si spegne.

L’impatto sugli obiettivi di finanza pubblica
Il tentativo del governo di transitare verso uno schema di sviluppo in cui la domanda trae sostegno da una politica di bilancio di segno espansivo è significativamente messo in discussione dal calo del Pil, rilevato che la variazione acquisita per il 2019 è pari a -0,2%. Le principali misure di spesa, il reddito di cittadinanza e quota 100 potrebbero richiedere un taglio per rispettare i target di indebitamento pari al 2% nel 2019 e all’1,5% nei due anni successivi. La politica di bilancio ha fatto infatti ampiamente ricorso ancora una volta alle clausole di salvaguardia, essendo gli obiettivi di finanza pubblica dal prossimo anno blindati attraverso un’ipotesi di aumento delle aliquote dell’Iva di entità rilevante. Sebbene si tratti di una impostazione già sperimentata nel corso degli anni passati, quando si è poi riusciti di fatto a disinnescare gli aumenti dell’Iva programmati, le circostanze attuali contengono un maggior grado di rischio.

In particolare, negli anni scorsi le clausole erano introdotte al fine di garantire il rispetto di un percorso di rientro che puntava nel medio termine all’obiettivo del pareggio di bilancio, e questo aveva poi consentito di evitare tali aumenti ricontrattando il target di anno in anno in senso peggiorativo. Questa volta invece le clausole puntano a conseguire un deficit che si posizionerebbe all’1,5% del PIL nel 2021, un livello quindi abbastanza elevato rispetto al target di medio termine; senza gli aumenti dell’Iva lo stesso quadro programmatico del governo sposterebbe il saldo al 3% del Pil. Una semplice revisione in senso peggiorativo degli obiettivi questa volta non potrebbe bastare. È per questo che la partita delle politiche di bilancio è ancora tutta da giocare, e nuove fasi difficili sono da mettere in conto.

 

Fonte: siderweb.com