Il virus non accenna a rallentare. Stando agli ultimi dati del Organizzazione Mondiale della Sanità (aggiornati al 12 Febbraio 2021) sono 107.252.265 i casi confermati nel mondo dall’inizio della pandemia, 2.355.339 i morti. Guardando all’Europa sono 36.351.772 i casi confermati con 805.485 morti. Analizzando i dati epidemiologici Paese per Paese risulta che nel Regno Unito i casi confermati sono 3.985.165 con 114.851 morti, in Francia 3.337.048 casi confermati con 78.965 morti, in Spagna 2.989.085 casi confermati con 62.295 morti e in Germania 2.288.545 casi confermati con 61.675 morti. L’Italia vede 2.636.738 casi confermati con 91.273 morti. Il nostro Paese è dunque il penultimo in Europa per contagi, sopra solo alla Grecia, ma contemporaneamente il secondo per decessi dietro al Regno Unito, che però ha 10 milioni di abitanti in più. Nel conteggio odierno per altro c’è da sottolineare che ancora non vengono rilevate le varianti del virus.
Stando all’analisi dell’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane dell’Università Cattolica pubblicata in chiusura dell’anno si rileva una grande differenza sull‘incidenza del virus rispetto alla mortalità in Europa. Comandano questa triste classifica Italia e Regno Unito, con gli indici più alti (ambedue 3,5%), poi Spagna (2,7%) e Francia (2,4%). Tra i migliori grandi paesi la Germania, con un indice di letalità che si ferma all’1,6%.
Disoccupazione nel mondo. È boom
Questa enorme emergenza sanitaria, accompagnata dalle chiusure più o meno drastiche che i vari Paesi hanno operato per fronteggiarla, ha avuto un forte impatto sul mondo del lavoro. Le stime dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro indicano un aumento della disoccupazione globale che va da 5,3 a 24,7 milioni di persone coinvolte. Questa si sommerebbe ai 188 milioni di disoccupati nel mondo che già erano stati censiti nel 2019.
L’OIL stima anche che tra 8,8 e 35 milioni di persone in più si troveranno in condizioni di povertà lavorativa in tutto il mondo. Gli effetti della crisi sulle ore lavorate e sul reddito sono imponenti. Nel secondo trimestre del 2020, ad esempio, le stime aggiornate prevedono una riduzione, a livello globale, delle ore lavorate pari al 17,3% (comparata al numero di ore lavorate nel quarto trimestre 2019). Questa riduzione equivale a 495 milioni di posti di lavoro a tempo pieno. Uno scenario che sembra essere confermato dai dati provenienti dagli Stati Uniti dove, secondo Eurostat, nel 2020 i disoccupati sono cresciuti di 4.897.000 unità facendo segnare un +3,1% rispetto al 2019.
In Italia il Covid ha già fatto perdere quasi mezzo milione di occupati
Per quanto riguarda invece l’Italia, le ultime rilevazioni Istat sul mese di dicembre 2020 parlano di 101mila occupati in meno rispetto al 2019 e di questi 99mila sono donne. Anno su anno, ci sono 444mila lavoratori in meno rispetto al 2019. Il tasso di occupazione fa registrare una flessione del 3,2% rispetto al 2019.
Il blocco dei licenziamenti e il dato falsato della disoccupazione
Eurostat rileva che i disoccupati italiani erano 2.479.000 nel dicembre 2019, un anno dopo esatto, con in mezzo la pandemia di Covid-19 e i pesanti contraccolpi sull’economia, le persone senza lavoro (sul totale di coloro che sono in età lavorativa e cercano attivamente un’occupazione) sono calate a 2 milioni e 250mila.
Il tasso di disoccupazione era del 9,6% un anno fa, oggi è del 9%. Un dato apparentemente positivo dunque e in controtendenza con il resto dell’Unione Europea. In Germania, come dicevamo, nello stesso periodo la disoccupazione è aumentata: il tasso è passato dal 3,3% al 4,6%, il numero totale è arrivato a 2 milioni, contro i circa 1,5 milioni del dicembre 2019. In Spagna, i disoccupati sono schizzati al 16,1% contro il 13,7% di un anno fa: tradotto vuol dire 3,7 milioni di disoccupati, circa 560mila in più. Più contenuto, ma sempre elevato, l’aumento dei disoccupati in Francia: 185mila circa su base annua.
Come si spiega questa controtendenza dell’Italia? Il dato è falsato dal blocco dei licenziamenti. Inizialmente con il Decreto “Cura Italia” (D.l. n. 18/2020) il Governo ha introdotto dal 17 marzo 2020 al 16 maggio 2020 il blocco di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, procedure di licenziamento collettivo e procedure di licenziamento collettivo pendenti avviate successivamente al 23 febbraio 2020. La misura è stata via via prorogata e ad oggi scade il 31 marzo 2021. L’Italia è l’unico Paese in Europa ad aver attivato questo tipo di strumento.
«Si stima che il divieto di recesso per motivo economico in vigore ormai da un anno abbia, per così dire, “congelato” 400mila licenziamenti», spiega il giuslavorista Pietro Ichino, «tutte persone che dovrebbero già oggi considerarsi sostanzialmente disoccupate, anche se formalmente il loro contratto di lavoro è ancora in vita. Per queste persone quel divieto è molto dannoso, perché ritarda il momento in cui esse incominceranno ad attivarsi per trovare una nuova occupazione e riduce, ogni mese che passa, la loro occupabilità». Per il prof. Ichino una scelta per altro sbagliata: «Quella disoccupazione noi fingiamo di non vederla, ma è già esplosa. L’urgenza non è continuare a nasconderla, ma affrontare il problema seriamente. Il Governo dovrebbe destinare il denaro che stiamo spendendo per una Cassa integrazione senza limiti e senza speranza ad aumentare semmai la durata e l’entità del trattamento di disoccupazione per chi verrà licenziato dopo il 31 marzo, assicurando l’80% a tutti, senza tetto o con un tetto nettamente più alto rispetto all’attuale di circa 1.200 euro al mese; e ad attivare i percorsi di orientamento e formazione necessari per indirizzare chi ha perso il posto verso le aziende che oggi cercano persone senza trovarle. O comunque verso i flussi delle assunzioni ordinarie, che si contano pur sempre a centinaia di migliaia ogni mese: non c’è alcuna ragione per cui chi ha perso il posto debba considerarsi destinato alla disoccupazione permanente».
Guardando quindi i numeri sulla disoccupazione a blocco cessato il quadro cambia drasticamente, nonostante le stime siano prudenziali, con un aumento di 400mila nuovi disoccupati tra i soli dipendenti, portando in Italia il saldo a +178mila disoccupati.
I giovani travolti dal virus. Italia patria dei Neet
Sempre secondo i dati Eurostat, la crisi del coronavirus ha dunque causato una perdita di reddito da lavoro senza precedenti. L’impatto è stato particolarmente duro per i lavoratori già svantaggiati, come i giovani. Prima della pandemia la disoccupazione giovanile nell’UE per i giovani tra i 14 e i 24 anni era pari al 25,7%. A dicembre 2020 la disoccupazione era pari al 29,7%, percentuale destinata ad aumentare e che segna un aumento del 4% su base annua.
«Se il tasso di disoccupazione degli under30 è triplo rispetto al tasso di disoccupazione generale, questa differenza va imputata interamente al difetto gravissimo dei servizi di orientamento scolastico e professionale nel nostro Paese», chiarisce Ichino, «gli adolescenti compiono le scelte decisive per il loro futuro “con la testa nel sacco”, cioè senza conoscere neanche in modo molto approssimativo che cosa li attende nel mercato del lavoro».
L’Osservatorio sulla Jobless society della Fondazione Feltrinelli che si occupa di analizzare le trasformazioni del mondo del lavoro legate alla quarta rivoluzione industriale, quella legata all’intelligenza artificiale, raccogliendo dati e elementi di scenario confluiti nell’Annale appena uscito dal titolo “Lavoro: la grande trasformazione” ha rilevato come il tasso di disoccupazione per le persone fra i 15 ed i 24 anni in Italia sarà oltre il 33%, contro una media europea del 12.5%, cioè quasi il triplo. Nel quadro va inserito il preoccupante numero di inattivi, i cosiddetti Neet, che per i giovani arrivrebbe al 40%, e la crescita della disoccupazione giovanile: il miglioramento registrato tra il febbraio 2014 e il febbraio 2020 è stato completamente cancellato dalla riduzione avvenuta tra febbraio e giugno 2020. L’Italia è ai vertici europei nel cosiddetto mismatch tra adeguatezza dell’impiego ottenuto rispetto al percorso formativo. Nel nostro Paese il 20% dei lavoratori è sovraqualificato, e di questi il 30% è laureato in facoltà STEM (Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica ndr). Rispetto all’Europa, i nostri laureati sono pochissimi, nonostante ciò, la loro scarsa presenza nel nostro Paese non ne migliora le prospettive: negli ultimi 15 anni, la disoccupazione dei laureati tedeschi nella fascia d’età 25–39 ha oscillato tra il 2 e il 4%, quella degli italiani tra l’8 e il 13%.
Uscendo dalle previsioni per stare su dati certi il quadro non risulta meno fosco. I Neet in Europa secondo il rapporto trimestrale sull’occupazione della Commissione Europea, sono in tutta l’Ue l’11.6% crescendo del 1,8% rispetto al 2019.
L’Italia guida la classifica con un 20,7%, seguita dalla Spagna con il 15,1%. Tutti gli altri Paesi europei sono invece sotto il 15%
«La responsabilità di questo impasse in Italia è delle Regioni, poiché esse hanno la competenza legislativa e amministrativa esclusiva nel campo dei servizi di orientamento scolastico e professionale», chiarisce Ichino, «D’altra parte va anche detto che un servizio di orientamento scolastico e professionale efficace, che raggiunga capillarmente ogni adolescente all’uscita di ogni ciclo scolastico – come accade nei Paesi del centro e nord-Europa – può essere realizzato soltanto quando gli addetti al servizio conoscano con precisione la qualità dei corsi scolastici e di formazione che possono essere consigliati agli interessati: per la formazione è essenziale la conoscenza del tasso di coerenza con gli sbocchi occupazionali effettivamente conseguiti da chi ne ha fruito. Anche questo è un tassello del nuovo sistema che va costruito quasi da zero, approfittando delle risorse straordinarie che verranno messe a disposizione da Bruxelles con il Next Generation Plan».
Le donne rappresentano il 70,3% dell’occupazione persa in Italia
Sempre l’Istat sottolinea come in Italia le donne che lavorano sono 9.530.000 con un tasso di occupazione del 46,8%. Nel 2019 erano 9.842.000 e il tasso si attestava al 50%. Significa che il 2020 ha visto un calo dell’occupazione femminile del 3,2% vedendo perdere 312mila occupate in un anno.
Secondo altri dati, quelli del Censis, con questo tasso di attività femminile l’Italia è ultima tra i Paesi europei, guidati dalla Svezia, dove il tasso raggiunge l’81,2%. Le donne italiane sono molto lontane anche dal tasso di attività maschile, pari al 75,1%.
«È la conseguenza del fatto che sono più le donne che gli uomini ad avere i contratti di lavoro a termine, dei quali la crisi in corso ha fatto strage», aggiunge il professore, «Se vogliamo davvero aumentare l’occupazione femminile e migliorarne la qualità, dobbiamo innanzitutto investire nei servizi alla famiglia, che facilitano la scelta delle madri di continuare o riprendere a lavorare. Sarebbe inoltre necessaria una grande “azione positiva” volta a rompere il circolo vizioso che caratterizza il nostro “equilibrio mediterraneo”, relegando le donne in una posizione di inferiorità rispetto agli uomini nel tessuto produttivo e, prima ancora, nel mercato del lavoro».
Un quadro generale che assume contorni drammatici se si entra in profondità verso un’analisi dettagliata dei dat Censis riguardo invece la disoccupazione. Nell’ultimo anno il tasso di disoccupazione in Italia è stata pari all’11,8% per le donne. Ma tra le giovani di 15-24 anni si arriva al 34,8%. Dati esorbitanti se si prende il dato medio europeo che si attesta al 7,6% del 2020 in crescita dello 0,5% rispetto all’anno precedente.
«L’unica soluzione possibile sta in una netta riduzione della pressione fiscale sui redditi di lavoro femminile», spiega Ichino, «Gli economisti concordano sul punto che la domanda e l’offerta di lavoro femminile sono molto più elastiche di quelle di lavoro maschile, quindi molto più sensibili a un incentivo fiscale. La riduzione dell’Irpef potrebbe essere qualificata espressamente come “azione positiva” destinata a durare fino a che non sarà stato raggiunto un tasso di occupazione femminile del 60%, obiettivo che l’Italia si è impegnata a raggiungere con il Trattato di Lisbona del 2000. Una misura di questo genere sarebbe perfettamente legittima dal punto di vista della legislazione antidiscriminatoria, proprio perché volta a correggere una discriminazione sistemica, e avrebbe un effetto molto positivo anche sulla ripartizione dei compiti domestici fra mariti e mogli».
I settori più colpiti dalla crisi
A rallentare in modo significativo sono settori come l’alberghiero, la ristorazione, il turismo, gli eventi e lo sport. Ed è proprio da questi settori che deriva la contrazione del mercato del lavoro. Secondo il report “Situazione e prospettive delle imprese nell’emergenza sanitaria Covid-19” dell’Istat, diramato a dicembre 2020, la perdita di lavoro è quasi del tutto a carico dei servizi: questa macro area dell’economia nazionale ha contribuito alla quasi totalità delle fuoriuscite dal mercato del lavoro nell’ultimo anno (96,3% del totale), sebbene il suo apporto all’occupazione sia più ridotto (sono occupati nei servizi il 69,5% degli italiani). Tiene invece ancora l’industria che, pur nell’estrema eterogeneità delle realtà settoriali, ha visto ridurre i numeri del comparto dello 0,6%. L’agricoltura si contrae invece del 2,4%.
Il Rapporto Retribuzioni di ODM Consulting offre una panoramica differente su quanto è accaduto in questo 2020 analizzando gli stipendi. Se a livello complessivo si osserva una “semplice” interruzione nel trend di crescita delle retribuzioni, se si indaga all’interno dei vari settori emergono con chiarezza i vincitori e i vinti della “lockdown economy”. Secondo il rapporto i settori che hanno subito il minor impatto sui livelli retributivi in seguito al confinamento sono i seguenti Corrieri/Trasportatori/Logistica, Grande distribuzione food, Farmaceutica, Alimentare, Energia elettrica, gas, acqua. In questi settori si riscontra un aumento medio di quasi 600 euro, con un picco di quasi 1.000 euro nell’industria Farmaceutica. Sul versante opposto troviamo i settori più danneggiati, in termini salariali, dalle chiusure forzate per il contenimento del contagio: Commercio al dettaglio, Industria dell’abbigliamento/Moda, Pubblici esercizi, Alberghiero, Tessile. In questi settori si riscontra una diminuzione media superiore ai 300 euro, con un calo di quasi 500 euro nel commercio al dettaglio.
Da sottolineare poi come, secondo il report Istat “Situazione e prospettive delle imprese nell’emergenza sanitaria Covid-19”, il 32,4% (con il 21,1% di occupati) segnala rischi operativi e di sostenibilità della propria attività e il 37,5% ha richiesto il sostegno pubblico per liquidità e credito, ottenendolo nell’80% dei casi. La diffusione della vendita di beni o servizi mediante il proprio sito web è quasi raddoppiata, coinvolgendo il 17,4% delle imprese.
Le pmi italiane alla prova del virus
La piccola e media impresa rappresenta in Italia la spina dorsale del lavoro. Secondo il Rapporto Cerved PMI 2020 il fatturato delle PMI attende un calo sul 2020 e l’inizio del 2021 tra l’11% e il 16,3%. I dati relativi a Payline, il database che raccoglie informazioni sulle abitudini di pagamento di oltre 3 milioni di imprese italiane, offrono un termometro in tempo reale dello stato di salute economico-finanziaria e indicano che le difficoltà delle PMI si sono fortemente concentrate durante la fase del lockdown. La quota di fatture inevase è progressivamente cresciuta dal 29% di gennaio 2020 a un massimo del 45% a maggio, per poi scendere a giugno e luglio (37%), rimanendo tuttavia a livelli ben superiori rispetto a quelli pre-Covid. Il Cerved Group Score Impact, che stima l’impatto del Covid-19 sulla probabilità di default delle imprese italiane, indica che la lunga fase di rafforzamento delle PMI si interromperà a causa della pandemia e che il numero di PMI “a rischio” potrebbe quasi raddoppiare, passando dall’8,4% al 16,3%. Una simulazione condotta su tutte le società di capitale (730 mila, con una base di 10,2 milioni di occupati, pari al 42% di quelli italiani) indica che, senza le prospettive di un rapido ritorno alla crescita, le conseguenze su occupazione e investimenti potrebbero essere rilevanti. A regime, le imprese analizzate potrebbero ridurre il numero di lavoratori di 769 mila unità (circa il 7,5% della base di occupati impiegata da queste imprese a fine 2019), a causa sia dell’uscita dal mercato delle società più fragili (135 mila lavoratori coinvolti), sia dell’adeguamento della forza lavoro al ridotto giro d’affari (633 mila addetti). Proiettando questa stima al totale delle imprese private – comprendendo quindi anche società di persone e imprese individuali – la perdita potrebbe arrivare a 1,4 milioni di lavoratori (l’8,3% del totale). Nello scenario più severo, di nuovi lockdown generalizzati, si perderebbero 1,1 milioni di posti di lavoro nelle società di capitale (-10,5%); nel complesso delle società private questo numero arriverebbe a 1,9 milioni (-11,7%).
L’anno del Covid è stato anche l’anno dello smart working
In Italia il 1 marzo 2020 è stato emanato un decreto che interveniva sulle modalità di accesso allo smart working, confermate poi dalle successive disposizioni emanate per far fronte all’emergenza. Secondo il report Istat “Situazione e prospettive delle imprese nell’emergenza sanitaria Covid-19” l’intensità dell’utilizzo del lavoro a distanza, al pari della sua diffusione, differisce tra i vari comparti, sebbene nell’ambito di una tendenza comune tra le diverse attività. In generale, l’utilizzo dello smart working/telelavoro sembra legato agli sviluppi attesi della crisi sanitaria: le imprese di tutti i macrosettori prevedono di incrementare progressivamente la quota di personale coinvolto nell’ultima parte del 2020, per poi ridurla ‒ senza tuttavia tornare ai livelli iniziali ‒ nel corso dei primi tre mesi del 2021.
L’incidenza degli occupati a distanza appare inoltre influenzata dalle specifiche caratteristiche dei processi produttivi: in corrispondenza dei picchi previsti a novembre-dicembre 2020, raggiunge il 20,1% nelle attività industriali, il 25,0% nelle costruzioni, il 30,8% nel commercio, il 41,2% nei servizi. Più in dettaglio, nei mesi finali del 2021 questa modalità di impiego potrebbe coinvolgere oltre la metà del personale dei settori di consulenza e direzione aziendale, editoria e trasmissione, pubblicità/marketing, telecomunicazioni, trasporto aereo e marittimo, e oltre il 60% di quello delle agenzie di viaggio, consulenza informatica, R&S, fornitura di personale. All’opposto, nei settori industriali tradizionali o di scala, quali pelli, carta, prodotti in metallo (ma anche gomma e plastica), e in servizi alla persona come l’assistenza sociale residenziale le imprese prevedono di non andare oltre il 15% di lavoratori a distanza. Sul piano dimensionale il ricorso allo smart working è stato e sarà più massiccio al crescere delle dimensioni delle imprese, a prescindere dal comparto di riferimento.
Cassa integrazione mai così usata. E per il 99% la causale è stata il Covid
È stato pubblicato l’Osservatorio sulle ore autorizzate di Cassa Integrazione Guadagni con idati di dicembre 2020. In questo mese sono state autorizzate 306.892.434 ore. Il 99% delle ore di CIG ordinaria, in deroga e fondi di solidarietà sono state autorizzate con causale “emergenza sanitaria Covid-19”. Le ore di Cassa Integrazione Ordinaria autorizzate a dicembre 2020 sono state 104.573.954 e si riferiscono quasi interamente alla causale “emergenza sanitaria Covid-19”, con un incremento del 1.095% rispetto al dicembre 2019 in cui le ore autorizzate erano state 8.751.012. Il numero di ore di Cassa Integrazione Straordinaria autorizzate a novembre 2020 è stato pari a 14.645.734, registrando un incremento del 94,2% rispetto allo stesso mese del 2019 (7.541.385 ore). Gli interventi di CIG in deroga sono stati pari a 70.143.383 ore autorizzate a dicembre 2020, con un incremento del 1.165.459,7% rispetto allo stesso mese del 2019, che aveva registrato 6.018 ore autorizzate. Il numero di ore autorizzate a dicembre 2020 nei fondi di solidarietà è stato pari a 117.529.363, registrando un decremento rispetto al mese precedente del 9,1%, ma con un aumento del 31.785,8% rispetto alle ore autorizzate a dicembre 2019 (368.595 ore).
Diminuisce il lavoro e calano anche gli infortuni
Come era prevedibile con la diminuzione del lavoro rallentano anche gli infortuni. Le denunce presentate all’Inail nei primi 10 mesi del 2020 sono state 421.497, circa 113mila in meno rispetto alle 534.314 dei primi 10 mesi del 2019 (-21,1%). Il calo si è registrato nonostante la presenza, nel 2020, delle denunce di infortunio sul lavoro a seguito dei contagi da Covid-19, che rappresentano circa il 16% del totale da inizio anno. Le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate all’Istituto nei primi 10 mesi di quest’anno sono state 1.036. Pur nella provvisorietà dei numeri, questo dato evidenzia invece già un aumento di 140 casi rispetto agli 896 registrati nello stesso periodo del 2019 (+15,6%). L’incremento è influenzato però dai decessi avvenuti e protocollati al 31 ottobre 2020 a causa dell’infezione da Covid-19 in ambito lavorativo, che rappresentano circa un terzo dei decessi denunciati all’Inail da inizio anno. Le denunce di malattia professionale protocollate infine dall’Inail nei primi 10 mesi del 2020 sono state 36.619, 14.436 in meno rispetto allo stesso periodo del 2019 (-28,3%). A influenzare la flessione è soprattutto il numero delle denunce presentate tra marzo e luglio 2020 rispetto all’analogo periodo del 2019. Il decremento maggiore si è registrato in aprile (-87%). Seguono maggio (-69%), marzo (-40%), giugno (-29%) e luglio (-18%), mentre settembre, al pari di gennaio, presenta un calo di oltre il 5% e ottobre del -17%. Ad agosto si era registrato, invece, un modesto incremento dell’1% rispetto all’analogo mese del 2019, mentre febbraio aveva chiuso con un +17%.
FONTE: MORNINGFUTURE.COM