Uno spettro si aggira per il mondo (siderurgico). Ma non è lo spettro del comunismo, come indicato da Marx ed Engels nel XIX secolo, ma uno spettro più fisico. Dal peso di 18 milioni di tonnellate. Questo, secondo un’analisi preliminare, è il volume delle importazioni statunitensi di acciaio che potrebbero sparire nel medio termine a seguito dell’introduzione della tassa del 25% voluta dall’amministrazione Trump.
Quello che siderweb, nella sua analisi contenuta nel volume “Speciale dazi USA” , aveva indicato come “worst case scenario” è diventata realtà: dopo l’annuncio di ieri, infatti, tutto il globo sarà daziato, con la sola eccezione di quattro stati: Corea del Sud, Brasile, Argentina ed Australia. Entrando nel dettaglio, si rileva che il Paese che ha ricevuto la maggior apertura è il Brasile (che potrà esportare negli Stati Uniti acciaio fino a 3,5 milioni di tonnellate annue), seguito dalla Corea del Sud (2,68 milioni di tonnellate) e dall’Argentina (180mila tonnellate). Per l’Australia, le trattative sono ancora in corso e dovrebbero chiudersi con un accordo simile a quello raggiunto dagli altri tre Paesi. I volumi che saranno concessi agli esportatori australiani non sono ancora noti, anche se è difficile immaginare che supereranno il livello degli ultimi anni (attorno alle 200mila tonnellate). Sommando quindi i volumi “liberi”, e supponendo che all’Australia sarà consentito di vendere negli USA, appunto, 200mila tonnellate annue, si ottiene un totale di 6,560 milioni di tonnellate, pari al 26,0% del totale delle importazioni siderurgiche americane nel 2017 (25,2 milioni di tonnellate secondo i dati forniti dalla World Steel Association). Se nel 2018 sarà confermato lo stesso livello di import, quindi, ne deriva che saranno a rischio circa 18 milioni di tonnellate di esportazioni, che potrebbero riversarsi sui mercati mondiali. A livello teorico, nel sistema-acciaio globale questi volumi potrebbero avere un impatto tutto sommato marginale: sempre secondo la WSA, infatti, essi sono pari solo al 4,0% del totale del commercio estero mondiale di acciaio del 2017 (463,3 milioni di tonnellate). Inoltre, le previsioni per il 2018 vedono un incremento del consumo apparente mondiale di acciaio di circa 30 milioni di tonnellate, un volume quasi doppio rispetto a quello del mancato export verso gli USA. Quindi, il sistema-acciaio mondiale non dovrebbe essere penalizzato. Diverso, invece, l’impatto sui singoli stati.
Canada: un colpo da oltre 5 milioni di tonnellate
Scorrendo i dati, si nota che circa il 20% delle importazioni statunitensi di acciaio provengono dal Canada. Nel Paese, inoltre, sono presenti molteplici filiali di aziende siderurgiche americane. La notizia dell’imposizione dei dazi verso le imprese canadesi ha colto di sorpresa tutti gli operatori, che, anche a causa della partecipazione dello stato al NAFTA, si aspettavano un esito diverso. Proprio il Canada rischia di essere il più penalizzato da Trump: ogni anno oltre 5 milioni di tonnellate di prodotti siderurgici varcano il confine per approdare nei magazzini dei clienti americani. Se, nel medio-lungo termine, questo flusso si inaridirà quale sarà il destino della produzione del Paese? Cinque milioni di tonnellate, per il Canada, sono infatti circa il 30% del consumo interno (16,6 milioni di tonnellate nel 2017) e rappresentano il 64% del totale dell’export siderurgico. Data la posizione geografica e un consumo interno che cresce, ma non in maniera sufficiente da assorbire nell’immediato una maggiore disponibilità di acciaio di questa entità, il dazio di Trump potrebbe contribuire ad una profonda crisi della siderurgia canadese.
Un altro dei Paesi che potrebbe risentire maggiormente della tassa sulle esportazioni è il Messico. Lo stato centroamericano esporta circa 2,5 milioni di tonnellate annue verso gli USA, pari a circa il 50% dell’export siderurgico messicano. Diversamente dal Canada, però, il Messico ha due vantaggi che potrebbero aiutarlo a combattere l’impatto negativo delle misure di Trump. Il primo è geografico, con la vicinanza al mercato centro-sudamericano verso il quale potrebbe deviare parte dei volumi (anche se dovrà fare i conti con la concorrenza brasiliana). In secondo luogo c’è il consumo interno, che sta salendo nettamente ed è passato da 19,8 milioni di tonnellate nel 2011 a 26,4 milioni di tonnellate nel 2017, con una crescita media di 1,1 milioni di tonnellate annue. Se questo trend venisse confermato, in poco più di due anni il mercato nazionale messicano potrebbe riassorbire le quote precedentemente destinate agli USA.
E l’Ue? L’Unione europea esporta circa 4-4,5 milioni di tonnellate annue verso gli USA. Nel breve periodo questo flusso sarà destinato a diminuire, ma non ad interrompersi del tutto. Il motivo è legato alla tipologia di prodotti acquistati dai clienti americani, spesso costituiti da acciai speciali o inossidabili difficilmente rimpiazzabili con prodotti analoghi «Made in USA». Alcuni prodotti commodity, invece, potrebbero essere sostituiti nel breve periodo, provocando un surplus. Questo surplus, peraltro, potrebbe aggravarsi anche a causa dei blocchi imposti a Turchia (1,9 milioni di tonnellate di export verso gli USA) e Russia (1,5 milioni di tonnellate): per le due nazioni, infatti, vendere i prodotti sul mercato europeo potrebbe rappresentare la soluzione più semplice. Ma a causa dell’incremento del consumo interno dell’Ue (stimato in circa 3 milioni di tonnellate quest’anno), l’impatto potrebbe quindi rivelarsi minore di quanto temuto in un primo momento, anche se, comunque, potrebbe rallentare una ripresa che stava rafforzandosi dopo anni di difficoltà.
Fonte: siderweb.com