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Donald Trump, un'”anatra zoppa” che continuerà a dettare l’agenda internazionale. È forse questa la definizione che meglio riassume gli effetti del recente voto di medio termine negli Stati Uniti.

Dopo otto anni, i democratici tornano ad essere la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, mentre nell’altro ramo del Congresso, il Senato, il partito repubblicano resta in sella. Da più parti ci si è chiesti cosa succederà ora che Trump è un’anatra zoppa, lame duck, cioè non può più contare su un Congresso interamente repubblicano. Con molta probabilità per ciò che interessa l’Europa e l’Occidente cambierà pochissimo e lo stesso vale per la politica commerciale americana.

I risultati economici hanno sostenuto Trump
Nell’ultima campagna elettorale, infatti, i temi dominanti non sono certo stati il rapporto con la Cina o con l’Unione europea, anzi i dati sulla congiuntura economica americana ed in particolare sul mondo del lavoro sono entusiasmanti: ad ottobre sono stati creati 250mila posti di lavoro e la disoccupazione è al 3,7%, mai così bassa da cinquant’anni a questa parte. Non solo, secondo le rilevazioni di ottobre i salari sono cresciuti del 3,1% rispetto all’ottobre 2017: un balzo in avanti prodigioso come non avveniva dal 2009. Inutile dire che lo stesso Trump nel suo tour elettorale dell’ultima settimana per rintuzzare l’assalto democratico alle due Camere elettive, abbia dedicato alla questione economica pochissimo spazio: l’economia statunitense vola e l’inquilino della Casa Bianca può solo provocatoriamente chiedere «Cosa volete di più?». Lo scontro elettorale e politico è stato quindi su temi sociali: riforma sanitaria e immigrazione innanzitutto, con una polarizzazione sempre più marcata tra il campo progressista e quello conservatore.

Due anni in trincea dall’assalto democratico
La Camera dei rappresentanti a trazione democratica, uscita dalle elezioni di metà mandato, metterà sì i bastoni tra le ruote alla Casa Bianca, ma su questioni di politica interna: sosterrà l’indagine sul Russiagate, ostacolerà i progetti di costruzione (o meglio di estensione) del muro al confine con il Messico, difenderà i diritti di cittadinanza dei figli degli immigrati, cercherà di salvare ciò che resta dell’Obamacare. Insomma darà voce a quella parte degli Stati Uniti che si batte per diritti civili, trasparenza e qualità della democrazia. Trump lo sa bene e non è un caso che il primo effetto del voto sia stato il “siluramento” del segretario alla Giustizia, Jeff Sessions, nel mirino da mesi per non aver in alcun modo ostacolato l’inchiesta sul Russiagate. Il presidente in carica sa che con una Camera ostile lo aspettano due anni sulla graticola e senza esclusione di colpi, per questo alla Giustizia vuole mettere un suo fedelissimo.
Dall’intera vicenda elezioni di medio termine sono escluse le questioni internazionali, quasi che sia destinata a prevalere quell’idea per cui la Casa Bianca e il commander in chief continueranno ad avere voce in capitolo quasi esclusiva sulla politica estera, sia essa di sicurezza sia esse commerciale (anche se Trump ci ha abituato a fare coincidere i due aspetti).

Nessun cambiamento in vista sul commercio internazionale
La politica dei dazi non cambia, anche se c’è sicuramente grande attesa, all’estero quanto meno, per il G20 di Buenos Aires, quando Trump dovrebbe incontrare il presidente cinese Xi Jinping in un bilaterale che potrebbe almeno in parte mitigare la politica dei dazi oggi vigente. Il presidente Xi ha ribadito la sua posizione qualche giorno fa in occasione del China International Import Expo a Shanghai. «Con la globalizzazione che si rafforza, le pratiche della legge della giungla e del vincitore che prende tutto sono in un vicolo cieco – ha affermato -. Rendere mendicante il tuo vicino porterà alla stagnazione del commercio globale».
Xi ha annunciato inoltre che la Cina taglierà ulteriormente i dazi all’import e aprirà i mercati per dare slancio ai consumi interni, rafforzerà la proprietà intellettuale e i negoziati commerciali con Europa, Giappone e Corea del Sud. Un segno di apparente buona volontà (anche se l’apertura dei mercati, ma soprattutto la necessità di aumentare i consumi interni, sono vitali per la crescita economica cinese).
Da parte americana l’atteggiamento degli ultimi giorni è stato molto ambiguo. Prima Trump ha annunciato una nuova ondata di dazi al 25% su ben 500 miliardi di prodotti importati dalla Cina. Se dovessero scattare dal primo gennaio andrebbero a colpire gli investimenti occidentali in terra cinese mettendo nel mirino una catena globale del valore che ruota attorno proprio alle fabbriche cinesi, che in questi anni ha colpito duramente l’industria americana. Per contro, tuttavia, Trump due giorni dopo l’annuncio dei nuovi super dazi ha fatto sapere di aver avuto una lunga e proficua telefonata col presidente cinese in cui si è parlato soprattutto di commercio internazionale.
Quindi come sempre quando si tratta di Trump regna la confusione e solo dopo l’incontro bilaterale a Buenos Aires in programma a fine novembre sapremo se il 2019 si aprirà anch’esso all’insegna dei dazi e delle barriere commerciali.

 

 

Fonte: siderweb.com